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Gentile: Persistenza dello stupore

di Renato Civello

Una limpida apertura di poesia, sottratta  alla usura del quotidiano in virtù di una spontanea incursione nelle latitudini del surreale e incardinata, in primo luogo, come indispensabile legittimazione, alle radici filologiche –ancora una volta il rappel à l’ordre dei realisti francesi che nell’immediato primo dopoguerra si strinsero attorno a Dunoyer de Segonzac (Marchand, La Patellière e tanti altri) per reagire alle avanguardie anarchiche degli inizi del secolo- si avverte nella pittura di Giuliano Gentile. Esperienza d’arte che trova la propria omologazione in una creatività autentica, straniera al paradigma. Come dire in un “tessuto di coscienza” dove interne pulsioni, itinerari di pensiero e fughe nell’immaginario coesistono armoniosamente, proponendosi come allegoria dell’essere.

E’ questa una condizione privilegiata che distingue l’artista di razza ben al di là dei ruoli e delle codificazioni protocollari; e che attraverso il rapporto diretto con le opere, fruibili anche per una complessa significazione ma anzitutto di cristallino respiro per il favoloso aggregarsi delle loro componenti, suscita un duraturo incanto. Il mondo di Gentile ci compensa, come linfa purificatrice che circoli miracolosamente nell’ossessivo rosario dei giorni, della stoltezza di tanto linguaggio cifrato, della volgarità e del gelo di tante equazioni semantiche.

Tutti i dipinti di questo artista riservato, alieno da ogni reclamizzato programma ma di innegabile spessore, di preferenza eseguiti ad acrilico, possono riassumersi nella sintesi universalizzante di un Pentagramma onirico (il titolo di un quadro dove i segni del vivere sono sconvolti e sublimati nell’aerea fantasia delle stelle e di una falce di luna, della frutta e delle note di un simbolico spartito che sembrano danzare contro lo sfondo di un bosco indefinito). Il trenino dell’uva rosaviola, che trasporta con la sua locomotiva a vapore anche una cattedrale e uno smozzicato torrione del Medioevo, o Il borgo delle meraviglie, con la ricorrente barchetta di carta in primo piano e la stregata allusione del firmamento che ingemma la cortina arborea retrostante, e tutte le altre realizzazioni sono, in effetti, un musicale compendio di sentimento-ragione, cuore-intelletto.  E non posso fare a meno di pensare alla intramontabile “fantasia creatrice” di memoria desanctisiana, che nel momento stesso in cui sembra incenerire il reale, disancorandolo dalle accumulazioni logiche cui siamo avvezzi, scava ben oltre il fenomenico e fa presagire superiori consistenze.

E cosí quella di Giuliano Gentile è una libertà “armata”: annienta le mille servitù del costume pragmatico e – vorrei dire, richiamandomi ancora alla distinzione fatta dal De Sanctis - gli approdi illusori dell’immaginazione, decisamente subordinati a quelli del processo fantastico poichè si limitano ad un improbabile combinatorio che non concorre affatto ad una liberatoria rivelatrice intuizione. Ariosto e tutti gli artisti dell’apparire sono dei “combinatori”, Dante e tutti gli artisti dell’avvertire sono invece testimoni dell’essere e delle sopravvivenze ideali; capaci di convogliare sensazioni ed emozioni verso una totalità gnoseologica, la Minerva-Sapienza che conclude, dopo gli inni dedicati a Venere e a Vesta, Le Grazie foscoliane.

Potrebbe ritenersi spiazzante, a prima vista, un dipinto come Bivalve di TerraCielo. Ma bisogna considerare che questa conchiglia angelica –a parte il corretto supporto linguistico, che è poi il dato qualificante per trasferire qualsiasi espressione d’arte nell’area del linguaggio- media esteticamente e poeticamente tra carnalità e spirito, tra epifania sensoria e trascendenza. Il surreale di Giuliano Gentile (che non si è contraddetto, ed anzi si è esaltato, tra l’altro, in pregevoli murales), ha una sua inviduale connotazione. E se la castissima donna sdraiata, ignuda, di Vitalità del Dolce Stil Nuovo è agli antipodi della celebre Olympia di Manet che scatenò entusiasmi e recusazioni e, per certi riguardi, anche della goyesca Maja desnuda, non c’è dubbio che nessun esodo dell’artista è condizionato da parametri referenziali, nessuna delle sue evasioni dal contingente è debitrice del Surrealismo storico o, comunque, di una pittura scampata all’accademia naturalistica. Nulla in comune con le frottages (“sfregamenti”) di Max Ernst, che davano luogo a figurazioni casuali; o con il dualismo speculativo Bene e Male, Vita e Morte di Andrè Masson; o, che so, con le mascherate di James Ensor, che rendono intricante l’espressionismo fiammingo (i carnevali amari non c’entrano con la gentiliana riposante Metafora della maschera-idillio).

Invito, per concludere, tutti i possibili fruitori della fine produzione di Giuliano Gentile a tenere presente che il simbolo, sia luna o barchetta, croma o biscroma, non riflette mai un eccesso di “intenzione”, ma si configura spontaneamente, per ostinata vocazione d’amore, come elemento poetico. Che non esclude, beninteso, i contenuti alti, ma non li corrompe con il groviglio di una dialettica invasiva. E li corrobora, infine, ferma restando la fascinosa levità della favola, con il piú ampio filtro professionale.

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